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MEME: ARCHIVIO INFINITO DI CREATIVITA’

Articolo di Benedetta Mordente In un momento storico in cui il patrimonio multimediale è il più vasto mai visto, creatività e personalizzazione rappresentano l’essenza stessa dei meme, per la possibilità che danno di rielaborare i significati un numero infinito di volte. Una prima definizione Il meme è la minima unità culturale capace di replicazione nei cervelli. È,ad esempio, una moda, uno stereotipo, un'immagine, che si propaga tra le persone attraverso la copia o l'imitazione mediante disseminazione e condivisione . Questa è almeno la definizione che troviamo su Wikipedia. Il primo ad utilizzare questo termine fu Richard Dawkins nel suo libro Il gene egoista (1974), intendendolo come l’unità base dell’evoluzione umana, così come il gene è l’unità base dell’evoluzione biologica. Chiaro è che con l’avvento di internet il termine ha cambiato significato, ma l’associazione non è sbagliata: così come il gene si diffonde attravers

Non è tutto oro quel che luccica: zone d’ombra del video sharing e dell’on demand

Articolo di Dario Lauritano


Viviamo in un mondo mai così saturo di contenuti audiovisivi: secondo una ricerca condotta alla fine del 2018 (Zenith), ogni utente del mondo trascorre circa 67 minuti al giorno guardando video. È una tendenza che non sembra volersi arrestare anzi pare destinata ad aumentare, fino a 84 minuti entro i prossimi due anni. Gran parte di questi contenuti sono fruiti online, neanche a dirlo, tramite piattaforme di video sharing (YouTube, Facebook, Vimeo) e di Video On Demand o SVOD (Netflix, Amazon Prime Video, Hulu, NowTv), i veri protagonisti del panorama digitale odierno. E tuttavia ancora oggi alcuni cruciali aspetti (se non problematiche) della fruizione audiovisiva sul web non sono stati risolti, anzi risultano quasi potenziati dall’enorme richiesta del settore. La pirateria resta un fenomeno sempre centrale mentre di contraltare paiono porsi competitor come Netflix che offrono vastissime libraries di contenuti, distribuiti legalmente, a prezzi sempre più accessibili. Questi ultimi sono stati citati spesso come la salvezza del copyright online. Tuttavia, in un habitat digitale sempre più connesso e interattivo, non si possono trascurare certi meccanismi di cui social network sites e SVOD si stanno servendo per soddisfare in maniera sempre più mirata e precisa le richieste degli utenti, spesso all’oscuro degli stessi.

La rete dei pirati

Il fenomeno della pirateria online ha rappresentato sin da subito un grandissimo problema per l’industria dell’intrattenimento. Molte sono state le campagne volte a sensibilizzare gli utenti sul tema, a scoraggiare l’utilizzo di piattaforme di condivisione peer-to-peer e siti di streaming, con risultati altalenanti. Questo perché le normative sul diritto d’autore e le vie legali tradizionali non sono mai riuscite ad adattarsi veramente alle regole e agli usi del velocissimo, variegato mondo di internet.


Immagini tratte dalla famosa campagna anti-pirateria “Piracy. It’s a crime” del 2004.
Stando a quanto rivelato da Valentina Re nell’articolo “Italy on Demand: distribuzione online, copyright, accesso” (2014)


“Nelle ricerche promosse dalle industrie del settore ogni download illegale tende ad essere considerato esattamente come un biglietto o un dvd venduto in meno, così da determinare con facilità il danno economico complessivo imputabile alla pirateria”

Questo approccio presenta, senza dubbio, evidenti semplificazioni (che la circolazione di un prodotto audiovisivo implichi necessariamente la sua fruizione, ad esempio, o che la fruizione illegale sostituisca sempre quella legale), ma risulta quantomeno difficile non pensare che la possibilità di accedere a innumerevoli contenuti a titolo potenzialmente gratuito sia uno degli aspetti più controversi del web sharing moderno.
Ma è una pratica effettivamente arrestabile? Una ricerca svolta dalla MUSO, una compagnia che si occupa di quantificare in dati gli effetti della pirateria online, evidenzia come nel 2017 siano stati effettuati ben 102 miliardi di accessi a siti pirati di film e serie tv, in crescita rispetto all’anno precedente quando questi si erano attestati intorno ai 78.5 miliardi. E questo nonostante l’affermarsi dei servizi di video on demand (SVOD) che, seppur stiano rimodellando i metodi di fruizione di contenuti audiovisivi online, secondo Janne Riekkinen, docente dell’università di Jyvaskyla (2018), “nonostante il successo di Netflix e altri […] non sono riusciti a contrastare la pirateria online; invece, il numero di film e serie piratate è continuato ad aumentare” (2018). La pirateria non è scomparsa né sembra per ora destinata a scomparire. Ciò che è cambiato è però il ruolo che essa ricopre nel panorama del consumo culturale in rete: se per molti prima era pressoché l’unico modo per condividere e accedere a contenuti (sia che si trattasse di file reperibili legalmente che non), oggi la pirateria rappresenta ancora una delle possibili vie percorribili, ma ad essa si possono preferire esperienze più veloci, intuitive (e per certi versi più soddisfacenti), nonché legali: le piattaforme SVOD.

Netflix “piglia tutto”

Il leader indiscusso del mercato on demand è Netflix, società nata nel 1997 inizialmente operante nel mercato dell’home video e successivamente nella distribuzione di contenuti audiovisivi online che oggi conta circa 125 milioni di utenti abbonati al suo servizio nel mondo (è disponibile in 109 paesi) e un fatturato che si aggira intorno agli 11 miliardi di dollari.
Il successo di Netflix non è stato casuale: ha saputo intuire prima di tutti la direzione del mercato e soprattutto interpretare i cambiamenti dell’audience che erano in atto; difatti nel presente digitale in cui si ha davvero l’imbarazzo della scelta sia sui prodotti culturali fruibili sia sui modi in cui accedervi, non ha più senso parlare di un solo pubblico, bensì di più audiences, sempre più differenziate e le cui richieste molto spesso divergono.
È a questi numerosi pubblici che rispondono le SVOD come Amazon PrimeHulu e Netflix in primis, che ha fatto della diversificazione della sua offerta il suo cavallo di battaglia: questo tramite la distribuzione di film e serie già conosciute e amate, ma soprattutto tramite prodotti originali, la cui produzione è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni (cominciata con il lancio della serie House of Cards nel 2013). Netflix punta a soddisfare davvero tutti, sembra avere una risposta a qualsiasi esigenza e spesso precede addirittura la domanda. Ma come?

Big (Data) Brother

Per fare questo Netflix si basa sulla cosiddetta profilazione, un sistema di raccolta massiccia di informazioni sui gusti e le abitudini dei suoi clienti. Scrivono Bellanova e Fuster, docenti della Libera Università di Bruxelles (2018):

“Netflix non solo ha un vasto archivio di film e meta-data su di essi, ma anche un database in continua crescita di informazioni sui suoi utenti, specialmente riguardo l’interazione con l’interfaccia della piattaforma. Quindi, Netflix ha acquisito nel tempo le capacità e gli strumenti per intuire le preferenze degli utenti, e creare prodotti culturali su misura per mercati specifici.”


Anziché produrre e distribuire contenuti idealmente rivolti al “grande pubblico”, Netflix ha perfezionato un modus operandi già adoperato dall’industria cinematografica e lo ha perfezionato, basando su di esso la propria strategia di marketing.

Sopra, una schermata tipo della home di Netflix, con i titoli divisi per generi, tendenze e
suggerimenti rivolti all’utente sulla base delle sue preferenze.
 Screen di Robert Silva, da “How to Stream Netflix in 4K”, 5 novembre 2018

Gli utenti condividono con la piattaforma una serie di informazioni in maniera consapevole (e-mail, username, password, metodo di pagamento, generi preferiti) ma spesso sono inconsapevoli di una vasta quantità di dati che Netflix raccoglie allo stesso tempo: indirizzi IP, cronologia di ricerche, posizione geografica dell’utente fino ad arrivare a dati via via più specifici quali le fasce orarie in cui un film o una serie è visionata, quante volte viene rivista o messa in pausa, da che dispositivo è fruita (Bellanova e Fuster, 2018). Quella che viene definita come una raccolta che “personalizza i suggerimenti di visione per film e serie tv che crediamo possano essere preferiti dagli utenti” (Netflix) somiglia più a un meccanismo di sorveglianza degli stessi. Bellanova e Fuster notano come

“Agli utenti viene dato ciò che desiderano, così che continuino ad essere sorvegliati, per far sì che ciò che desiderano possa essere prodotto. […] lo scopo delle pratiche di raccolta dati non si limita al suggerire agli utenti certe scelte, ma qualifica e modula le possibili scelte. […] Le audience di cui Netflix si prende cura e che monitora possono essere micro o macro, non è il fattore decisivo. Ciò che conta è che sono audience altamente disciplinate in una costante (conscia o inconscia) partecipazione alla produzione di dati su di loro […]“

E questo non ha a che fare solamente con Netflix, ma con tutti i social network sites che si basano sulle attività degli iscritti e la condivisione dei loro contenuti, siano essi audiovisivi o non: Facebook, Instagram, Spotify, YouTube, per citare i più importanti. Nel libro “Social Media Studies – I social media alla soglia della maturità: storia, teorie e temi” (2018) Nicoletta Vittadini estende questo discorso riguardo l’utilizzo di tutti i social media da parte degli utenti che non sono più solo consumatori ma anche produttori di contenuti, tanto da essere definiti prosumer.

“[…] si genera un processo di mercificazione degli utenti. In primo luogo perché gli utenti producono dati che contribuiscono alla generazione di profitto da parte delle piattaforme, […] in secondo luogo perché la stessa creatività espressa è oggetto di un processo di commercializzazione e scambio poiché consente alle piattaforme non solo di incrementare il loro valore […] ma anche perché gli stessi prodotti creativi fanno parte dei dati prodotti dagli utenti e sono funzionali alla loro quantificazione e profilazione”

Si parla, in tal senso, di Big Data, indicando con questo termine non solo la raccolta intensiva di dati ma anche la loro analisi e messa in relazione volta a interpretare legami tra fenomeni diversi e prevederne gli esiti. Questi tipi di ricerche sono oggi all’ordine del giorno per i grandi competitor del settore. Stando a una recente inchiesta pubblicata dal New York Times (“5 Ways Facebook Shared Your Data”, 2018), la piattaforma di Zuckerberg ha permesso libero accesso a dati strettamente personali dei suoi iscritti a terzi (Netflix, Spotify, Amazon e Apple) per anni: tra questi nomi, informazioni di contatto, contenuti condivisi, calendari, informazioni sugli amici in comune e addirittura chat private (queste ultime a Spotify e Netflix).
La risposta di Netflix allo scandalo (l’ennesimo per Facebook da Cambridge Analitica) non si è fatta attendere:

“Nel corso degli anni abbiamo sperimentato diversi metodi per rendere Netflix più social. Un esempio è la funzione lanciata nel 2014 che permetteva agli iscritti di raccomandare show TV e film ai propri amici su Facebook tramite Messenger o Netflix. Non è stato un successo, e abbiamo disattivato la funzione nel 2015. Non abbiamo mai visualizzato le conversazioni private degli utenti su Facebook, e non abbiamo mai chiesto la possibilità di farlo.”

Comunque, stando sempre a ciò che il New York Times riporta, la piattaforma SVOD ha continuato ad avere accesso alle chat private degli utenti fino al 2017.


Mark Zuckerberg durante una delle sedute al Senato sullo scandalo di Cambridge Analytica. 
Foto di Andrew Harnik, AP Photo, 2018


Per concludere

In un contesto in cui le connessioni e i rapporti sono cementificati dal web, l’utilizzo di siti internet basati sulla condivisione di contenuti e di dati deve diventare più consapevole. Gli strumenti messi a disposizione degli utenti per rendere la loro esperienza online più piacevole e proficua nascondono il più delle volte interessi aziendali ben precisi. Questo vale sia che si tratti di condivisione e fruizione di prodotti culturali, le cui modalità sono ancora lontane dall’essere ragionatamente regolamentate (l’ultimo tentativo da parte dell’Unione Europea è tutt’ora in corso e non esente da critiche), sia che si tratti di cedere le proprie informazioni personali in cambio di servizi sì altamente performanti, ma il cui bisogno spasmodico di raccogliere dati rischia di minare il diritto alla privacy.





Bibliografia e Sitografia 
  • Riekkinen J., (2018), Streaming Era Digital Media Piracy - An Integration of Three Theoretical Perspectives, University of Jyväskylä
  • Riekkinen J., (2018), Piracy versus Netflix: Subscription Video on Demand Dissatisfaction as an Antecedent of Piracy, in Proceedings of the 51st Hawaii International Conference on System Sciences, pp. 3558-3567
  • Pescatore G., (2013), La pirateria come forma di consumo dei beni culturali, in Piracy Effect. Norme, pratiche e casi di studio, 2013, MIMESIS, pp. 37-48
  • Balanzategui J., Burke L., Golding D., (2018), Recommending a new system: An audience-based approach to film categorisation in the digital age, in Participations: Journal of Audience & Reception Studies, volume 15
  • Bellanova R., González Fuster G., (2018), No (Big) Data, No Fiction? Thinking Surveillance With/Against Netflix, in The Politics and Policies of Big Data: Big Data Big Brother?, London: Routledge.
  • Vittadini N., (2018), Social Media Studies – I social media alla soglia della maturità: storia, teorie e temi, Franco Angeli Edizioni
  • Re V., (2014), Italy on Demand: distribuzione online, copyright, accesso, in Cinergie – Il cinema e le altre arti, n° 6

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